Per presentarvi al meglio l’incontro speciale con Dario Argento che verrà condotto da Manlio Gomarasca il prossimo 5 maggio al Cinema Lux in occasione della diciottesima edizione di Tutti i colori del giallo vi proponiamo un estratto di un lungo articolo che il critico cinematografico realizzò per “Nocturno” qualche tempo fa sul maestro del brivido italiano evidenziando le caratteristiche del suo modo di girare film e la sua originalità stilistica.
Alla fine degli anni Sessanta, il giallo all’italiana vagabondava in cerca di una nuova strada che desse vigore a un filone che ormai faticava a stare al passo con i tempi: Mario Bava prendeva in giro il genere con 5 bambole per la luna d’agosto, film che (a torto) il regista considerava il peggiore della sua carriera; Umberto Lenziconcludeva la sua trilogia con Così dolce, così perversa e Paranoia, senza riuscire (a suo dire) a raggiungere le vette del precedente Orgasmo; Riccardo Freda tentava un intrigo erotico-lisergico con A doppia faccia, tratto da un soggetto di Lucio Fulci, che fu, però, un vero e proprio fallimento al botteghino; mentre lo stesso Fulci esordiva, invece, felicemente nel genere con un thriller “hitchcockiano” dal titolo Una sull’altra, che ottenne sì buoni riscontri, ma che rappresentava, più che altro, il tributo estremo a un tipo di cinema che andava scomparendo. In breve: nel 1969 il giallo non sapeva di cosa sopravvivere. Sennonché, inaspettatamente, un giovane critico cinematografico che poteva vantare al suo attivo un soggetto importante scritto l’anno prima per il “maestro” dello spaghetti western Sergio Leone (C’era una volta il West), decise di esordire dietro la macchina da presa. Il suo nome era Dario Argento, figlio di cinematografari (suo padre, Salvatore, faceva il produttore e sua madre era la fotografa delle “dive” Elda Luxardo), e il film che avrebbe cambiato la sua vita e il destino del cinema italiano della paura si intitolava L’uccello dalle piume di cristallo.
«A quell’epoca facevo lo sceneggiatore e, fra le tante cose, scrissi una storia per farla realizzare a qualche regista. A quella storia però incominciai ad affezionarmi, mi sembrava il film più bello che avessi mai scritto: semplice e compatto; decisi, allora, di volerlo dirigere personalmente», ricostruiva Argento. Naturalmente trovare un produttore disposto a rischiare per far debuttare un esordiente non era poi così facile, visto e considerato che Argento non era certo disposto a scendere a patti. Grazie all’interessamento di suo padre Salvatore, Dario riuscì a presentare il progetto a Goffredo Lombardo, storico produttore della Titanus, una delle società più ricche e storicamente importanti dell’epoca. Lombardo si disse entusiasta del soggetto (tant’è che vi apportò anche qualche modifica personale, tipo le mani guantate dell’assassino che battono a macchina sui titoli di testa), ma preferì rivolgersi a un regista di solida esperienza come Terence Young, il quale, però – fortunatamente per noi – declinò l’offerta. L’insistenza del giovane sceneggiatore e le pressioni di suo padre, deciso a entrare nell’operazione come co-produttore, convinsero alla fine Lombardo a far esordire Dario Argento nella regia. Leggenda vuole che dopo qualche settimana di ripresa Lombardo, vedendo i giornalieri, si dichiarasse profondamente insoddisfatto del risultato e tentasse di sostituire il regista con l’amico Ferdinando Baldi. Anche questa volta, però, la cocciutaggine di Argento padre e figlio la spuntò e il giovane Dario riuscì a portare a compimento l’impresa.
Quando il film uscì nelle sale a Milano e Torino, fu un vero disastro e nessuno si accorse del potenziale che questo gioiello di suspense racchiudeva in sé. Nessuno o quasi, visto che un altro giovane critico, Luigi Cozzi, rimase folgorato sulla via di Damasco e intervistò il non più baldanzoso Argento per la rivista Ciao 2001. Quasi contemporaneamente, però, accadde il miracolo. Il tam tam del pubblico entusiasta sortì il suo risultato e quando il film uscì a Firenze e a Napoli ottenne un tale successo che in breve capovolse la situazione, trasformando L’uccello dalle piume di cristallo in un vero e proprio “caso” cinematografico. Correva l’anno 1970 e senza che nessuno se ne fosse accordo, era iniziata una nuova importante era per il cinema giallo. Goffredo Fofi, ad esempio, dando prova di una assenza di lungimiranza rara, riusciva a scrivere dei primi successi di Argento questi trincianti giudizi: «Ora, l’idolo di turno è un altro giovane mangione, Dario Argento, che ha inventato (sulla scia di Psycho di Hitchcock) il giallo erotico con L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code. (…). Improbabili vicende e improbabile regia si fondono nei suoi film in un’unica giustificazione: la sequela di morti violente l’una più originale e sanguinolenta dell’altra, con dovizie e gusto da piccolo macellaio. Il pubblico abbocca così come ieri aveva abboccato ai western spaghetti di Questi o Tessari o Petroni e alle cose di Bora Bora». Giudizio cieco, in verità; intanto perché di Argento tutto si poteva dire tranne che non possedesse un’impronta stilistica particolare e innovativa; e poi perché Argento ebbe a che fare solo in maniera molto marginale con la nascita del giallo erotico (materia di Martino e soci) e certo di sesso nell’Uccello dalle piume di cristallo e nel Gatto a nove code, il secondo film di Argento, se ne vedeva veramente poco.
Bisogna, comunque, ben intendere ciò che accadde e quali furono le fondamentali novità introdotte dai film di Argento. Al di là di alcune geniali intuizioni visive e della modernità del giovane regista e del suo linguaggio cinematografico elegante e incisivo (distante anni luce da quanto fino ad allora era stato portato sugli schermi in Italia e in qualche modo paragonabile solo allo stile “internazionale” di Sergio Leone e di Bernardo Bertolucci); la vera rivoluzione apportata da Dario Argento nel giallo era contenutistica e concerneva il movente che spinge l’assassino a compiere i suoi delitti: il trauma. Alla base delle nefandezze compiute dal maniaco nell’Uccello… e nei gialli a venire di Argento, c’è un trauma, quasi sempre riferibile all’infanzia o alla prima giovinezza dell’individuo (quando la sua sensibilità è tale da non riuscire ancora a scindere il bene dal male: il tema, in seguito, verrà perfettamente sviscerato da Lucio Fulci, in un vero e proprio sottofilone del giallo, dove “i bambini” giocano un importante ruolo); un trauma da cui scaturiscono la follia e l’istinto omicida. Il movente che spinge Monica Ranieri (Eva Renzi) a uccidere giovani donne nell’Uccello dalle piume di cristallo, è il trauma della violenza subita da bambina, che un quadro naif riporta improvvisamente alla luce. Il concetto di “trauma”, così semplice quanto rivoluzionario, fu una vera illuminazione per il genere giallo, che fino ad allora aveva trattato quasi solo di intrighi monetari e complotti di famiglia; e rappresentò uno shock indicibile per lo spettatore, che per la prima volta si trovava di fronte a una nuova figura di assassino le cui gesta non erano più dettate da diabolico raziocinio (per esempio il desiderio di accaparrarsi un eredità), ma da una cupa e crudele follia. Anche la figura della vittima cambiava proporzionalmente a quella dell’assassino: chiunque poteva diventare l’agnello sacrificale. Persino lo spettatore.
Tutto questo serviva ad amplificare il terrore di un pubblico impreparato a vivere in prima persona la paura e l’angoscia della vittima. Praticamente, quello che Argento aveva fatto era stato trasformare “l’uomo della strada” da spettatore passivo a spettatore attivo. Non solo: grazie all’uso smodato della soggettiva (che cominciò ad assumere un ruolo determinante nel secondo film, Il gatto a nove code), Argento osava ancora di più, costringendo lo spettatore a identificarsi con l’assassino e a sperimentare contemporaneamente l’angoscia della vittima e l’esaltazione dell’omicidio.